Quando sono stati costruiti?

Il rapporto fra memoria e storia è da considerarsi antico quanto le società stesse.
Alla fine di ogni guerra, l'esigenza di commemorare e fissarne nel tempo il suo ricordo è spesso sfociata nella costruzione di opere monumentali e rituali. Classica in questo senso l'iscrizione che Erodono ricorda riportata su una pietra al Passo delle Termopili:"..va' e riferisci agli spartani, o straniero che passi, che obbedienti al loro comando noi qui giacciamo..".
Al termine della Prima Guerra Mondiale, negli spazi pubblici di gran parte dei centri abitati italiani, vennnero eretti numerosi monumenti dedicati alla memoria dei caduti in quel conflitto. Ancora oggi quei monumenti segnano in misura caratteristica il nostro paesaggio urbano.
Pur trattandosi di elementi architettonicamente e simbolisticamente interessanti sotto molti aspetti, il fenomeno della costruzione dei monumenti ai caduti della Grande Guerra fondò spesso la sua importanza non tanto sulla qualità in se stessa delle opere realizzate, ma soprattutto su alcune caratteristiche specifiche: la diffusione capillare in tutto il paese; la committenza pubblica che agiva attraverso comitati promotori locali; le finalità politiche, emblematiche del clima storico e sociale del primo dopoguerra e, più in generale, del primo novecento italiano.
Una parte della popolazione italiana guardava al conflitto, che aveva creato un "vuoto" così grande nelle giovani generazioni, con estraneità se non con aperta ostilità. La memoria della guerra e dei suoi lutti venne dunque elaborata da costoro, in qualche caso, tentando particolari vie internazionaliste o antipatriottiche ostacolate dal potere, in altre situazioni, più comunemente, giungendo a un'accettazione del conflitto grazie alla tradizionale mediazione della religione.
La fetta di opinione pubblica, invece, più prettamente orientata all'ideologia nazional-patriottica si trovava a dover fronteggiare un fenomeno imprevisto. La guerra appena terminata aveva rappresentato un massacro di entità del tutto inaspettata: 650.000 morti e 984.000 feriti. In questo caso dunque, si doveva affrontare non solo il "semplice" lutto per i tanti caduti ma anche il fatto che fossero morti proprio in una guerra "nazionale", elemento in grado di far vacillare la fedeltà all'ideale a cui queste individualità si sentivano fortemente legate.
La commemorazione "monumentale" dei caduti può essere vista come il tentativo di "collegare" l'accettazione della guerra nazionale, alla necessità del superamento del lutto attraverso una manifestazione concreta, una atto tangibile, espressione di una cittadinanza comunitaria e locale, che potesse attribuire contorni accettabili alla morte in battaglia, cercando allo stesso tempo di restituirle un senso ideale.
Memoria ed elaborazione del lutto venivano quindi mediate attraverso una partecipazione collettiva, che trasfigurava in termini eroici una morte in molti casi semplicemente frutto delle contingenze della guerra. Una situazione che si rivelò non priva di implicazioni, al punto da sfociare negli anni seguenti in una retorica apertamente revanscista.
Inizialmente, i morti in guerra furono oggetto di un processo di elaborazione del lutto messo in atto unicamente da familiari e comunità locali, per dare un significato e rendere più tollerabili le enormi perdite numeriche. Molte delle iniziative di commemorazione non ebbero, cioè, carattere ufficiale o statale, ma partirono "dal basso", dalla cerchia dei caduti.
Parenti, colleghi, amici, spesso semplici conoscenti, accomunati dalla situazione, si organizzarono per ricordare i caduti a livello di singole aggregazioni sociali.
La costruzione dei monumenti veniva realizzata attraverso concorsi a cui partecipavano scultori già esperti nella produzione cimiteriale, tipica di una scultura celebrativa dotata di caratteristiche coerenti con l'ideologia della committenza e con tratti di comprensibilità verso il grande pubblico. Le cerimonie di inaugurazione non presentavano un carattere prettamente funebre, ma piuttosto solenne e al tempo stesso cariche di tensione comunitaria.
Nelle diverse fotografie d'epoca si nota la presenza di una grande folla, composta di gente comune e reduci, che partecipa allo scoprimento dei monumenti, accolti in maniera festosa e al suono di inni patriottici.
Solo successivamente le manifestazioni commemorative assunsero anche un carattere ufficiale e nazionale. Con l'avvento al potere del fascismo nel 1922, infatti, il governo centrale iniziò a prefigurare la necessità di onorare la memoria dei caduti attraverso la costruzione di monumenti posti all'interno di specifici giardini o boschi denominati "Parchi della Rimembranza", con l'intento di simboleggiare soprattutto l'idea della fertilità del sacrificio dei caduti della Grande Guerra attraverso l'impianto di alberi.
Le prime norme su questi "giardini della memoria", in base alle quali ad ogni caduto sarebbe stato dedicato un albero e la sua cura sarebbe stata affidata ad uno o più alunni meritevoli, furono emanate nel 1922-23, in particolare dal sottosegretario al Ministero della Pubblica Istruzione Dario Lupi che promosse a tale scopo in tutti i Comuni d'Italia la costituzione di comitati locali per le iniziative in onore dei caduti.
Se inizialmente, dunque, per la localizzazione dei monumenti erano stati scelti quasi esclusivamente i centri storici, cuore dell'immagine pubblica delle città, i Parchi della Rimembranza portarono all'individuazione di nuovi spazi, spesso decentrati, ma più ampi, che accolsero diverse di queste opere commemorative.
Ma non ci fu unicamente una memoria "ufficiale" e organica alla situazione politica dell'Italia di allora. Soprattutto tra il 1919 e il 1920, infatti, diverse associazioni locali e forze politiche di sinistra coltivarono il ricordo dei caduti, dell'opposizione alla guerra e delle sofferenze causate a soldati e civili.
Comuni guidati da sindaci socialisti inaugurarono lapidi e monumenti sui quali vennero incise epigrafi nolto esplicite nel descrivere l'orrore verso il conflitto, in cui i soldati morti venivano descritti più come semplici vittime che come eroi.
Questi particolari monumenti ai caduti ebbero, però, vita breve e difficile. Gia' i primi governi liberali del dopoguerra ne ostacolarono o vietarono la costruzione, e con l'ascesa al potere del fascismo vennero pressochè tutti distrutti.
Utilizzato dal nascente fascismo con l'intento di monopolizzare la memoria della Grande Guerra e affermare una sorta di continuità tra esperienza bellica e fascismo, il fenomeno della "monumentalistica" proseguì, con la tacita approvazione degli ambienti politici ufficiali, durante tutti gli anni '20.
Molte furono però anche le proteste di intellettuali, uomini politici ed artisti, come Benedetto Croce e Carrà, per porre un freno alla proliferazione di monumenti di scarso valore artistico. Fino a chè, nel 1928, una circolare ministeriale invitò le amministrazioni locali a limitare le spese per i monumenti commemorativi e ad impiegare i fondi raccolti dai comitati promotori per la realizzazione di opere di pubblica utilità.
Dopo questa data, a livello locale, la costruzione di monumenti commemorativi subì quasi ovunque una forte flessione, fino a bloccarsi intorno al 1930.
Nel 1931 il regime fascista decise di procedere allo smantellamento di molti piccoli cimiteri sorti in modo provvisorio lungo i fronti di guerra, spesso in stato di semiabbandono. Attraverso il Commissariato per le Onoranze ai Caduti in guerra diede nizio alla costruzione di diversi Ossari monumentali nei territori delle province che erano state teatri di guerra. Al loro interno furono traslati i resti di decine di migliaia di soldati.
L'imponente realizzazione architettonica dei grandi sacrari portò al sostanziale abbandono delle simbologie più tipiche della monumentalistica locale, spesso molto semplice, a volte influenzata dagli stilemi liberty del primo novecento, per ispirarsi invece ad uno stile e a simbolismi più prosaicamente roboanti e romaneggianti.
Non stava cambiando solo il "sentire" critico e culturale dell'intera collettività sociale verso la guerra nazionale e i suoi caduti, ma lo stesso potere fascista, dopo aver utilizzato e sfruttato a fondo l'epica della Grande Guerra quale motore emozionale del consenso, aveva ormai deciso di abbandonarla a favore di un nuovo mito propagandistico, quello dei fasti dell'antico impero romano.